Dalle Semifinali di Wimbledon:

Una volée che ha spolverato il nastro, un ace, uno smash, un servizio vincente. Sono i quattro punti finali che hanno abbattuto l’ultima parete. Una sequenza mai uscita per 144 anni sulla schedina di un italiano nell’ultimo game di una semifinale a Wimbledon. È arrivata dopo altri 123 punti messi insieme contro i 97 del polacco Hubert Hurkacz, giunto fin qui non su invito, ma per aver battuto Daniil Medvedev e Roger Federer. È arrivata dopo 22 ace e il 63% con la prima di servizio, dopo 60 colpi vincenti (a 27), solo 18 errori, 2 palle break concesse in tutto e tutte annullate.

Nessun italiano aveva mai servito in modo così brillante sull’erba di Wimbledon, o giocato con tanto equilibrio nei momenti importanti e decisivi come il venticinquenne romano con un berretto da baseball rovesciato: così il sito del torneo celebra Matteo Berrettini, capace di un’impresa (6-3 6-0 6-7 6-4) che a ogni sessantenne, a ogni testimone di dritti e rovesci nato dopo il 1960 di Nicola Pietrangeli è sempre parsa impossibile: un italiano in finale a Wimbledon, ma figuriamoci: «Ho bisogno di un paio d’ore per capire cosa è successo. Ho giocato una grande partita. Non l’avevo mai nemmeno sognata perché era troppo».

Il tennis italiano ha avuto in questi sessant’anni un vincitore del Roland-Garros (Panatta) che giocava da don Chisciotte con veroniche e tuffi sulla rete, più un suo Sancho Panza dal sapor mediterraneo (Bertolucci). Ha avuto sia virtuosi dal grande braccio e dalla minor costanza (Fognini e Canè) sia maratoneti dalla gran costanza e dal minor braccio (Furlan e Caratti). Ha avuto mancini da erba (Nargiso e Pozzi) e rovesci bimani che sull’erba funzionavano (Sanguinetti). Ha avuto altoatesini e siciliani (Seppi e Cecchinato), campani e piemontesi (Starace e Ocleppo). Ha avuto dritti anomali coi baffi (Camporese) e tipi coi baffi dalle anomali vite (Zugarelli). Ha avuto servizi poco fisici (Volandri) e fisici bestiali (Gaudenzi). Ha avuto ascese precoci (Pescosolido) e altre mature (Lorenzi). Come diceva ieri un amico in sms, ha avuto prima di Berrettini finanche altri due quadrisillabici piani, doppiamente geminati (Cancellotti e Barazzutti). Ma nessuno di loro, e nemmeno tutti quanti messi insieme, è mai arrivato dove il tennis italiano è spuntato ieri con il suo Pollicione, alla fine di un sentiero fatto di molte piccole briciole. 

In prevalenza, scrive stamattina Giorgia Mecca sul “Foglio sportivo”, Erano terraioli, sempre sulla difensiva, fuori dalla linea di fondocampo a remare, remare, remare, mentre adesso Berrettini ha già riscritto la storia di questo sport, la percezione che gli altri hanno dei tennisti italiani, la percezione che i tennisti avevano di se stessi, non più una vita da mediani, sempre lì nel mezzo, a rosicchiare spazio, ma fuoriclasse, campioni tra i campioni, un passo dietro a nessuno. 

Marco Imarisio sul “Corriere della sera” sottolinea che Solo chi ha vissuto la lunga epoca in cui si sperava al massimo di vedere un italiano al terzo turno di uno Slam, ed erano più le volte che si restava con l’amaro in bocca, può capire cosa significa questa finale nel tempio del tennis. Decadi di retroguardia, mentre questo sport così esclusivo al suo vertice entrava nell’età dell’oro. Un ragazzo del quale le nostre nonne avrebbero detto che è cresciuto con i valori giusti. Senza fretta, un mattone per volta. Senza sentirsi predestinati e senza seguire l’illusione ottica dell’irripetibile Santa Trinità Federer-Nadal-Djokovic. Il primato nel tennis dei prossimi anni sarà una faccenda collettiva. Una democrazia e non più una dittatura. E noi abbiamo il prototipo del nuovo tennis, un giocatore che spinge su ogni palla, aggressivo fino all’estremo. È la prima possibilità delle tante che verranno. Per Matteo, e per le grandi speranze dietro di lui. Se seguiranno il suo esempio”.

Un Berrettini, sottolinea Paolo Rossi su “Repubblica”, che è Un appassionato dei “miti” della Capitale, da Carlo Verdone ad Adriano Panatta, fino ai rigatoni alla gricia. Legge Edward Bunker, Charles Bukowski, Ernest Hemingway. Adora il cinema: Quentin Tarantino, Stanley Kubrick e Sergio Leone i suoi preferiti. Ma apprezza anche Nanni Moretti e Paolo Sorrentino”. 

Anche Stefano Semeraro su “La Stampa” ricorda che I successi storici italiani sono tutta roba vinta scommettendo sul rosso, il nostro azzardo congenito. Tanto che la finale all italian tra Pennetta e Vinci a New York, sul cemento esotico di Flushing Meadows, nel 2015 era sembrata un refuso felice. Wimbledon era una galassia lontana lontana, una favola straniera, una storia troppo diversa da noi. Troppi re, troppi te alle cinque, troppo Kipling, facile da citare ma complicato da applicare per i nipotini di Machiavelli e Guicciardini; troppe tradizioni e regole da rispettare, confini da non oltrepassare; e poi l’eterna paura di farci conoscere (anche se a grattare la vernice verde, sotto sotto, scopri che non siamo così diversi, noi e loro; e in fondo ai vialetti fioriti di begonie ci vedi un pizzico di Napoli). Decenni in cui ci siamo sentiti sopportati, compatiti, mai veramente considerati. Poi bang! Matteo Berrettini. Che piace anche ai british perché è un po’ Mastroianni e un po’ Vialli, bello e tutt’altro che impossibile da amare, intonabile all’atmosfera del posto, italiano senza averne (troppo) l’aria; grintoso, educato, in possesso di un inglese quasi perfetto. Un Peter Pan con i riccioli pronto a trasportarci, a forza di sorrisi e prime di servizio, nell’Isola verde che per noi, fino a ieri, non c’era”. 

Dario Cresto-Dina per “Repubblica” ammette che Aspettavamo Jannik Sinner, per adesso è arrivato Matteo Berrettini con il suo passo tranquillo da gigante gentile. Da non predestinato, ha preso nelle sue mani la Storia e si è issato sulla piazza verde e un po’ spelacchiata del Vaticano tennistico, come lo scrittore Giorgio Bassani definì Wimbledon. Matteo Berrettini è un bello che non ostenta la sua bellezza, è un romano con un aplomb da diplomatico, un campione che non tiene il broncio se i media lo trascurano, un ragazzo rimasto fedele alla famiglia e al suo primo maestro, Vincenzo Santopadre, ex numero cento della classifica mondiale. Domani pomeriggio entrerà al Conclave da cardinale, se non ne uscirà Papa – ma chissà? – sappia che lo ringrazieremo lo stesso”.